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Anagrafica

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Nome ufficiale: Repubblica araba d’Egitto
Capitale: Seul Il Cairo
Superficie: 1.001,450 km2
Confini: (ad ovest ) con la Libia, (a sud )con il Sudan, ( a nord-est) con Israele e Palestina; è bagnato (a nord) dal Mar Mediterraneo e (ad ovest )dal Mar Rosso.
Popolazione: 88.487.396
Composizione etnica: Egiziani (96,6%), altri (0,4%)
Forma di governo: Repubblica semipresidenziale
Lingue ufficiali: Arabo (lingua ufficiale) e inglese
Religioni: Musulmani sunniti (90%), Cristiani (in maggioranza ortodossi copti, altri Cristiani – tra cui apostolici armeni, Cattolici, Maroniti, Ortodossi e Anglicani) 10%
Aspettativa di vita: 71 anni
Tasso di natalità: 31.9 ( nati/1000 ab.)
Servizio militare: obbligo di servizio per gli uomini tra i 18-30 anni, durata di 18-36 mesi seguiti da 9 anni di riserva
Scolarizzazione: n.d.
Unità monetaria: Sterlina egiziana
PIL: 332 miliardi di dollari
Tasso di crescita del PIL: 4,1%
Debito pubblico/ PIL: 101,2%
Export partners: UAE 10,9%, Italia 10%, USA 7,4%, UK 5,7%, Turchia 4,4%, Germania 4,3%, India 4,3%
Import partners: Cina 7,9%, UAE 5,2%, Germania 4,8%, Arabia Saudita 4,6%, USA 4,4%, Russia 4,3%.

Istituzioni

Dall’8 giugno 2014 il capo dello Stato è Abdelfattah Said al-Sisi, mentre il capo del Governo – dal 7 giugno 2018 – è Mosafa Madbouly, nominato da al-Sisi e votato dal Parlamento. Vige un sistema monocamerale: la Camera dei Rappresentanti (Majlis Al-Nowaab) ha un totale di 596 seggi, di cui 448 sono eletti direttamente, 120 tramite liste di partito (sono riservate quote per le donne, i giovani, i Cristiani e i lavoratori), mentre i restanti 28 sono di nomina presidenziale.

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Per quanto riguarda il sistema giudiziario, la massima istituzione è la Corte Costituzionale Suprema (CCS), composta da 10 giudici più un presidente. Funge da ultima istanza sulla costituzionalità delle leggi e sui conflitti tra corti minori. Altri organi principali sono la Corte di Cassazione (CC), composta da un presidente e da 550 giudici, adibita a più alto grado di appello per i casi civili e penali; la Corte Amministrativa Suprema (CAS), ovvero la massima espressione del Consiglio di Stato in base alla Costituzione del 2014. Tutti i giudici sono selezionati dal Consiglio giudiziario Supremo e nominati dal presidente.

Economia

L’economia egiziana è la seconda del mondo arabo dopo quella dell’Arabia Saudita. Le maggiori fonti di guadagno provengono dal comparto agricolo, dal settore turistico e dalle rimesse degli egiziani emigrati all’estero (soprattutto in Arabia Saudita e nei Paesi del Golfo).

La rapida crescita demografica e la riduzione delle terre arabili stanno frenando lo sviluppo economico, in un Paese già abbastanza segnato dal difficile clima politico.

Attualmente, l’economia egiziana è in difficoltà. Sebbene la Banca Mondiale e il FMI prevedano un tasso di crescita del PIL compreso tra il 3,9 e il 4,3%, bisogna infatti segnalare che diverse criticità inducono a ritenere possibili ulteriori contrazioni del PIL, investendo in particolare il settore turistico, come detto una delle risorse principali e per questo bersaglio privilegiato del terrorismo (si veda l’incidente aereo dell’ottobre 2015 nel Sinai).

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La Banca Centrale sta cercando da un lato di combattere il mercato nero, adottando misure che hanno però creato problemi alle imprese importatrici, dall’altro di far fronte alla crisi economica, per esempio attraverso la recente svalutazione del 13% della valuta egiziana.

Al-Sisi è consapevole della necessità di attrarre investitori stranieri, ragion per cui nei suoi discorsi sottolinea spesso il dato sulla stabilità politica garantita dal suo Governo.

Al tempo stesso, però, il piano di riforme necessarie a far ripartire il Paese procede a rilento, e ciò stride con l’approvazione di progetti che sembrano diretti a promuovere l’immagine del regime più che una sana riforma dell’Egitto: i casi della creazione di una nuova capitale e dell’allargamento del canale di Suez, ne sono la prova. Con riferimento a quest’ultima vicenda, va sottolineato che il progetto, completato nel 2015, ha aumentato la profondità del canale principale, e ne ha creato uno ex novo, di 35 km, parallelo al primo; tutto questo per accrescere il traffico del canale, da cui si spera di ottenere maggiori entrate per le casse statali. I dati però non rivelano una crescita del commercio mondiale tale da giustificare economicamente siffatta operazione: Ahmed Kamaly, economista all’American University del Cairo, ha spiegato alla Reuters che i ritorni sono politici più che economici, motivati dall’intento di unire la popolazione attorno a un grande progetto. Uno studio di SRM (realizzato in collaborazione con Intesa-San Paolo), afferma esattamente il contrario.

Insomma, le basse posizioni occupate dall’Egitto nelle classifiche della Banca Mondiale e del World Economic Forum (rispettivamente 131° per capacità di fare business e 116° per competitività globale) offrono il giusto spaccato della situazione, e contrastano con le classifiche che evidenziano il peso (e dunque le potenzialità) del Paese. L’insostenibilità delle finanze egiziane è un problema che va risolto, proprio per l’importanza geopolitica del Paese che non si può permettere il fallimento; allo stesso tempo, nel medio-lungo periodo è insostenibile anche la continua e totale dipendenza da prestiti e sostegni esterni. In particolare, si segnala l’ingente supporto finanziario (di recente concretizzatosi in 8 miliardi di dollari per il settore energetico e turistico) offerto dall’Arabia Saudita.

Società e diritti

Il primo atto di rilevanza simbolica della presidenza di al-Sisi fu la messa al bando della Fratellanza Musulmana, attualmente fuorilegge, seguita da restrizioni delle libertà civili, peraltro sempre più intense, al punto che l’ascesa stessa di al-Sisi ha generato dubbi in merito a un effettivo ritorno della “dittatura militare”. La tornata elettorale del marzo 2018 è stata definita da diverse organizzazioni “ridicola” e ha visto trionfare nuovamente, con oltre il 97% dei consensi, il presidente al-Sisi.

Bisogna ammettere che, almeno formalmente, la sua road map stia avanzando, ma occorre al contempo registrare una forte polarizzazione del Paese, nonché le grosse riserve sui metodi poco ortodossi e democratici del presidente egiziano. A tal riguardo, da alcune parti si rileva che la situazione è persino peggiorata rispetto agli ultimi tempi di Mubarak: attivisti spariti, islamisti incarcerati, oppressione spesso violenta, sono solo alcune delle devianze del sistema-Egitto, peraltro spesso mascherate con le necessità imposte dalla lotta al terrorismo. La vicenda dell’italiano Giulio Regeni, purtroppo, è amara testimonianza di quanto detto.

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Per l’Egitto è importante indicare chiaramente il proposito di implementare il percorso verso la democrazia, così da convincere la comunità internazionale sulle sue buone intenzioni. Dall’altra parte, deve esserci la consapevolezza che il processo richiede tempo, pur se i 20/25 anni suggeriti da al-Sisi sono eccessivi, soprattutto in rapporto ad alcune misure fondamentali che non possono attendere ulteriormente. Tra queste, di sicuro, lo spazio per la società civile, che deve essere parte del processo politico e non venire considerata alla stregua di un soggetto ingombrante; la risoluzione del problema del gap esistente tra sicurezza e diritti umani, attualmente considerevole per ammissione stessa dei vertici egiziani; la tematica sulla pena di morte, da affrontare con attenzione.

La questione principale chiama in causa proprio il rapporto tra l’establishment e la società civile, in particolare quella che si oppone all’operato del Governo. La vicenda di Giulio Regeni, che ha ottenuto la ribalta delle cronache internazionali per la sua portata diplomatica e politica, è solo la punta di un iceberg la cui base è fatta di repressioni, rapimenti, torture e abusi su coloro i quali vengono ritenuti una minaccia per la “stabilità” del Governo e del Paese.

Ad essere bersagliati non sono soltanto i singoli, ma anche e soprattutto i gruppi: il Governo sta incrementando una battaglia contro quelli che sono percepiti come “avamposti” di Stati nemici, che mirano a rendere instabile il processo di affrancamento del Governo di al-Sisi: le accuse ai fondatori dell’Egyptian Initiative for Personal Rights e dell’Arabic Network for Human Rights Information, rispettivamente Hossam Bahgat e Gamal Eid, riguardano non a caso la ricezione illegale di fondi esteri.

I gruppi che documentano gli abusi sono messi sempre più sotto pressione: soggetti come il Nadeem Center, che assiste le vittime di tortura, e il Nazra fo Feminist Studies, gruppo di advocacy femminile, hanno subìto minacce di chiusura.

Difesa e sicurezza

La più complicata sfida che l’Egitto dovrà sostenere nel breve-medio periodo, è quella del terrorismo: ciò non solo in termini di propria salvaguardia, ma anche con riferimento a molti altri Paesi, ponendosi esso stesso come barriera all’espansione del fenomeno.

Questo ruolo delicato diventa ancor più complesso se svolto in circostanze drammatiche, sia in atto che in potenza: basti pensare che la minaccia terroristica colpisce il Paese in maniera intensa ormai da svariati anni, e che potenzialmente ci sono 35 milioni di giovani egiziani a rischio radicalizzazione.

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Nella lotta al terrorismo, combattuta su ben tre fronti (sud, ovest, nord-est), l’Egitto adotta un approccio olistico: gli obiettivi sono diretti a garantire il miglioramento delle condizioni economiche della popolazione e a fornire servizi (educazione, assistenza sanitaria): combattere la povertà significa combattere la radicalizzazione. Inoltre, ottenere il sostegno della popolazione avrebbe come risvolto della medaglia – oltre al risultato in termini di prevenzione – il fatto di garantirsi la migliore fonte di notizie sui terroristi. In secondo luogo, bisogna riconoscere ad al-Sisi un grande merito: quello di avere partorito l’innovativa idea della lotta al messaggio islamista, più che alle sue conseguenze. Nel discorso tenuto il 1° gennaio 2015, il presidente ha invocato uno sforzo d’esegesi delle maggiori istituzioni religiose egiziane, tra tutte al-Azhar, per fare della contro-narrativa rispetto ai gruppi terroristici. La zona più calda in questo ambito è quella del Sinai, con un incremento negli attacchi pari a dieci volte in soli quattro anni. Nello stesso periodo, le vittime delle operazioni anti-terrorismo sono salite da 12 a più di 3.000, le incarcerazioni da 16 a più di 3.600.

La situazione in Sinai è figlia di molti errori. Se il conflitto nella regione nacque come contrasto a bassa intensità, animato dalle proteste dei beduini per la difficile situazione economica, esso è poi degenerato a causa di un intervento esclusivamente muscolare da parte dell’esercito egiziano: gli interventi militari per contrastare i fenomeni dei tunnel palestinesi, hanno causato lo sfollamento di decine di beduini, regalandone il controllo (sono circa 400mila) alle forze jihadiste, abili a sfruttarne i sentimenti di rabbia e umiliazione. Il più grave attentato nella zona si è verificato il 31 ottobre 2015, quando una bomba ha sventrato un aereo russo decollato da Sharm el-Sheikh.

L’obiettivo dei terroristi è chiaramente politico: il parallelo con la Tunisia, in questo caso, è evidente. La strategia assodata è infatti quella di effettuare attacchi in luoghi turistici, così da colpire fortemente il settore che più di tutti sostiene questi Paesi: dal primo al secondo anno di al-Sisi, il calo dei flussi turistici è stato del 22%, addirittura del 40% in relazione all’ultimo anno di Mubarak.

Passato

Dal 1922 l’Egitto divenne formalmente una monarchia costituzionale. Nel 1948, dopo la Seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna pose fine definitivamente al suo mandato, disimpegnandosi dalla zona e ponendo le premesse per la proclamazione dello Stato d’Israele, immediatamente riconosciuto da Russia e USA: Egitto, Libano, Siria, Giordania e Iraq entrarono subito in guerra contro gli israeliani, ma persero miseramente, in quella che nel mondo arabo fu definita come “la nakba del 1948” (il disastro del 1948).

Nel 1952 la svolta, con la rivoluzione degli Ufficiali Liberi che portò al potere prima Naguib, poi Nasser, i quali presero le redini della neonata Repubblica d’Egitto, rafforzando l’esercito (considerato la coscienza delle masse) e sciogliendo i partiti.

Tra Naguib e Nasser si creò però un contrasto, che sfociò in crisi nel 1954, quando quest’ultimo annunciò la fine della rivoluzione e fece espellere Naguib. Nasser fu eletto presidente nel 1956, lo stesso anno in cui scampò a un attentato dei Fratelli Musulmani (che vennero perseguitati e banditi). Dopo neanche un mese, dovette gestire una crisi molto delicata, quella provocata dalla sua decisione del 26 luglio di nazionalizzare il canale di Suez (di cui le banche e le imprese britanniche detenevano una quota del 44%) per finanziare la costruzione della diga di Assuan (per la quale i fondi erano stati negati da Gran Bretagna e USA, per via del non allineamento nasseriano nella Guerra fredda). Di fronte all’annuncio di Israele, Gran Bretagna e Francia di un attacco all’Egitto, intervennero USA e URSS che posero un freno a una crisi che sarebbe potuta degenerare.

Il regime di Nasser si ispirò a panarabismo e socialismo con basi islamiche, anche se nella prassi politica la linea fu improntata al laicismo; il sistema era statalizzato, monopartitico e militarizzato. Il fallimento dei piani quinquennali decretò però il fallimento del socialismo stesso, svelando definitivamente il carattere autocratico di una falsa democrazia. Anche il panarabismo nasseriano fece la stessa fine, crollando tra il ’61 e il ’63 con la questione siriana.

Ma la data spartiacque nella storia del Medio Oriente fu il 1967, anno della storica Guerra dei Sei Giorni: il 5 giugno Israele distrusse l’aviazione egiziana e successivamente, con offensiva di terra, attaccò Siria e Giordania. La guerra nacque nel clima esasperato creato dal siriano Atassi e da Nasser, i quali fomentavano l’odio anti-israeliano. La fobia dell’accerchiamento persuase il ministro della Difesa israeliano, Moshe Dayan, a scatenare l’offensiva: dopo avere annientato l’aviazione, in breve tempo si arrivò – a sud – al canale di Suez, occupando Gaza e il Sinai, e a nord fino quasi a Damasco. La sospensione delle ostilità – avvenuta già il 10 giugno – vide gli arabi annientati, e Israele padrone di quei territori.

Da quel momento in poi, gli Stati Uniti si schierarono incondizionatamente con Israele. Questo diede il via a una crisi del nasserismo a livello internazionale, e per la prima volta al Cairo venne attaccato Nasser e il suo regime. L’Arabia Saudita cercò di cogliere l’occasione per prendere il posto dell’Egitto quale Paese leader in Medio Oriente. La sconfitta dimostrò il totale fallimento del socialismo nazionalista arabo, orientando quindi la politica verso un orizzonte più islamico.

Nel 1971 Sadat, il successore di Nasser, provvide a decapitare l’élite dirigente filo-nasseriana, abbandonò definitivamente il socialismo e l’utopia del panarabismo, avviando una duplice infitah (apertura) economica e politica.

In politica estera, la politica di Sadat si focalizzò sulla normalizzazione delle relazioni con gli USA e, nonostante le critiche dei Paesi arabi, sul riavvicinamento con Israele, dove effettuò una storica visita nel 1977, tenendo un discorso alla Knesset.

Quattro anni prima, precisamente il 6 ottobre 1973 (giorno dello Yom Kippur), era scoppiata la quarta guerra arabo-israeliana: l’esercito egiziano aveva attraversato il canale di Suez, sfondando i confini di Israele nel Sinai, mentre le truppe siriane erano avanzate dal Golan. La guerra fu un successo morale egiziano.

Come detto, però, Sadat si mosse molto in direzione di Israele: il viaggio del  ’77 spianò la strada agli accordi di Camp David del 1979. Ma la pace lasciava fuori dagli accordi i palestinesi, e dunque l’Egitto venne cacciato dalla Lega Araba e dalla Conferenza Islamica.

La vicinanza con gli USA pose fine all’egemonia del Paese nel Medio Oriente, con Arabia Saudita e Iraq che cercarono (invano) di riempire il vuoto. Inoltre, la politica autocratica alienò a Sadat molti settori della società: i copti, in particolare, si agitarono per via della sua politica religiosa. Nel 1980 fu emanata la Costituzione su base shariatica e la Fratellanza Musulmana venne riabilitata. Questi atteggiamenti provocarono una radicalizzazione dei gruppi, al punto che Sadat fu assassinato il 6 ottobre 1981 dalla fazione della “Jihad islamica egiziana”.

A succedergli fu Mubarak, sotto la cui guida la trasformazione capitalistica dell’economia non ebbe i risultati sperati, e l’Egitto rimase un Paese povero, segnato da forti disuguaglianze.

Dal punto di vista politico, ci furono in parte dei miglioramenti: apertura al dialogo e alle trattative. Sotto la presidenza Mubarak, negli anni Novanta, l’Egitto conobbe una pericolosa escalation del terrorismo estremista islamico, a cui fece da contraltare l’altrettanto violenta repressione da parte di polizia ed esercito. Alla fine, lo Stato uscì rafforzato dalla lotta contro il terrorismo, ma rimasero delle debolezze strutturali, economiche, democratiche e sociali. L’unico fattore di stabilità fu la sostanziale identità tra il partito e lo Stato.

A livello internazionale, Mubarak proseguì la linea di Sadat: rinuncia al panarabismo nazionalista-socialista nasseriano, approccio filo-occidentale e filo-statunitense. Grazie a questa nuova leadership e alle sue scelte, l’Egitto riacquistò una centralità nel mondo arabo che aveva perduto dopo gli accordi di Camp David. Il Paese fu quindi riammesso nella Lega Araba (1989) e nel 1990 giocò un ruolo importante nella formazione della coalizione araba anti Saddam Hussein.

Il prezzo da pagare per il protagonismo di Mubarak fu la restrizione delle libertà civili: un fattore che, alla lunga, genera scontento. Quello stesso scontento che il 25 gennaio 2011 avrebbe decretato la fine della “dittatura”, dopo tre decenni. Ci fu poi la breve esperienza di governo della Fratellanza musulmana con Morsi, prima dell’avvento di al-Sisi.

Nel 1972, dopo l’imposizione della legge marziale, Park procedette a delle modifiche costituzionali per accrescere i suoi stessi poteri, ma un diffuso malcontento fu all’origine del suo assassinio nel 1979. L’allora Primo ministro, Choi, divenne presidente ad interim, rimanendo in carica per brevissimo tempo. Il generale Chun, difatti, si impadronì del controllo sulla Nazione con un colpo di Stato militare e pochi mesi dopo, nel 1980, fu eletto presidente della quinta Repubblica. Di lì a poco, però, il Paese fu attraversato da una serie di proteste contro la dittatura militare, severamente represse dal regime. Nel 1987, comunque, Chun fu costretto a concedere alcune riforme democratiche, tra cui l’elezione presidenziale a suffragio diretto. Le prime elezioni parlamentari libere si tennero nel 1988 e videro prevalere Roh Tae Woo, un’altra figura appartenente al panorama militare. Le proteste studentesche continuarono ma, contrariamente alle aspettative, Roh liberalizzò in maniera marcata il sistema politico, ristabilendo relazioni internazionali con la Cina e con l’Unione Sovietica, adottando una serie composita di misure volte a diminuire il tasso di autoritarismo del governo. In questo stesso periodo, la capitale Seoul ospitò le ventiquattresime Olimpiadi e, sull’onda lunga del successo registrato nell’organizzazione della manifestazione sportiva, nel 1991 la Corea del Sud entrò a far parte delle Nazioni Unite. Nel 1993 fu per la prima volta il momento di un presidente non appartenente al ramo militare, Kim Young Sam. Nel 1996 il Paese raggiunse l’ambito traguardo dell’ingresso nell’OECD, l’organizzazione che raggruppa gli Stati più ricchi e avanzati del globo. E tuttavia, una volta raggiunto quell’obiettivo, i numerosi fattori che avevano reso possibile un celere successo economico si trasformarono in evidenti lacune. Di lì a un anno, il Paese venne colpito dalla durissima crisi economico-finanziaria che travolse tutta l’area est-asiatica. Le elezioni del 1997 furono vinte da Kim Dae Jung, il cui immediato compito fu quello di affrontare in maniera immediata le conseguenze di una crisi che avrebbe fatto registrare una profonda recessione e la richiesta di aiuto al Fondo Monetario Internazionale, nel dicembre 1997. L’ammontare della cifra messa in campo dal Fondo rappresenta ancora oggi il più grande prestito concesso storicamente a un singolo Stato: 58,35 miliardi di dollari. Pochi anni più tardi, nel 2000, avvenne lo storico incontro tra il presidente Kim Dae Jung e il leader nordcoreano Kim Jong Il, in conseguenza del quale si sperò nella pacifica risoluzione dei rapporti e nella riunificazione del Paese. Nel 2003 fu eletto presidente Roh Moo Hyun, in carica fino alla fine del 2007.

Il 4 ottobre 2007  Roh Moo-hyun e il leader della Corea del Nord Kim Jong-Il firmarono un accordo di cooperazione suddiviso in otto punti, tra i quali venne ricompreso il ripristino dei voli e degli scambi ferroviari e commerciali fra i due Stati.

Presente

Al-Sisi ha ottenuto diversi successi diplomatici. Innanzitutto il reingresso del Paese nell’Unione Africana, la mediazione nel conflitto di Gaza, il sostegno politico-finanziario ricevuto da Arabia Saudita ed EAU, la vicinanza al mondo occidentale. Gran parte delle argomentazioni del Feldmaresciallo ruotano sull’importanza della stabilità egiziana, nodo cruciale per la lotta globale al terrorismo islamico.

Le direttrici strategiche della politica estera egiziana sono quattro: il sud, dove c’è da gestire un intenso traffico illegale di armi e droga, nonché lo sfruttamento delle migrazioni e la delicata situazione del Sudan; il nord, ovvero il Mediterraneo, che ripropone le questioni meridionali, con dirette implicazioni sulla Comunità europea; il nord-est, lungo la cui linea si concentrano la lotta al terrorismo nel Sinai e la gestione geopolitica dei conflitti in Palestina, Siria e Yemen; l’ovest, attualmente la principale fonte di pericolo in ragione della precaria tenuta del sistema-Libia.

Il peso demografico, politico ed economico dell’Egitto impone uno sforzo ulteriore – in particolare della comunità internazionale – per far sì che il Paese non crolli, per evitare scenari che provocherebbero conseguenze inimmaginabili.

Futuro

Un aspetto di non secondaria importanza rimanda al futuro ruolo dell’Egitto nell’ambito delle rotte energetiche del Mediterraneo orientale. Se un tempo il Paese era esportatore di energia, ora ne ha carenza interna: per questo, una delle principali urgenze riguarda il processo di espansione del settore energetico, attraverso lo sfruttamento delle ingenti risorse naturali. A tal riguardo, la scoperta di un enorme giacimento di gas naturale, operata dall’ENI nell’agosto 2015, potrebbe consentire nel medio-lungo periodo una minore dipendenza dalle importazioni di idrocarburi e uno stop alla crescita del consumo elettrico interno. Del resto, si stimano riserve comprese tra i 2 e i 3 mila miliardi di metri cubi.

L’energia ha comunque diverse fonti: si stanno studiando progetti per sviluppare il settore delle centrali atomiche e solari, nonché strutture per l’energia eolica. I finanziamenti per la centrale nucleare di Dabaa saranno forniti dalla Russia, attraverso la compagnia Rosatom. L’impianto sarà completato nel 2022, divenendo pienamente operativo solo nel 2024.